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    No alla pena di morte. Psicologia e società

    Pena di morte. Psicologia e società

    0
    By Pagine Blu on 18 Novembre 2016 Psicologia, Psicologia dei diritti umani, Rubriche

    Pena di morte. Psicologia e società

    Giustiziare a morte un essere umano è il tentativo (che mai riuscirà del tutto) di uccidere la nostra immaginaria potenziale parte assassina.

    Pena di morte: Teresa, un punto di troppo nel test di intelligenza.

    La notizia – ripresa dai media lo scorso autunno per il confronto fatto dal presidente iraniano Ahmadinejad con il caso della Sakineh a rischio di lapidazione – ha girato tutto il pianeta: il 24 settembre 2010 è stata giustiziata, con la pena di morte, Teresa Lewis, una donna americana condannata a morte tramite iniezione letale per aver fatto uccidere nel 2002 marito e figlio (di lui, avuto da precedente matrimonio). Non è la prima esecuzione e non sarà nemmeno l’ultima. Ma stavolta c’è una notizia dentro la notizia: il governatore dello stato della Virginia ha respinto la domanda di grazia avanzata per la condizione di “inabilità mentale” della detenuta. Per quale motivo? La risposta è la seguente: perché al test intellettivo WAIS il punteggio raggiunto dalla Lewis è risultato superiore al livello di 69 punti (che fa da confine per definire la presenza di un deficit cognitivo, come stabilito dalla letteratura internazionale e dai criteri diagnostici ICD-10, utilizzati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità). Infatti al test Teresa aveva raggiunto un Q.I. di 72.

    Ad un ulteriore somministrazione del test fatta da un altro psicologo per conto dello stato della Virginia, il punteggio raggiunto è stato di 70 (fonte Amnesty International). La donna, quindi, non è stata considerata mentalmente inabile, bensì sufficientemente in grado di intendere e volere. A nulla è servita la dichiarazione di due periti medici che, rilevando nella donna una situazione di cronica dipendenza da farmaci antidolorifici, avevano avanzato ulteriori riserve sulla sua lucidità mentale. Ed altrettanto a nulla è servita l’ammissione di uno dei due sicari poco più che ventenni (gli assassini materiali, conoscenti della Lewis e condannati all’ergastolo) di aver plagiato la donna, grazie anche alla sua scarsa capacità critica, facendola innamorare di sé con l’intento di farsi poi consegnare da lei il premio dell’assicurazione sulla vita stipulato a suo tempo dal marito. Tra l’altro, per la cronaca, anche gli assassini sono stati sottoposti al test intellettivo: uno ha raggiunto un punteggio di 118, l’altro di 68 (ancora più basso di quello della Lewis: e presumo sia quello che pensava di avere già in tasca i dollari dell’assicurazione). Il giudice (monocraticamente, senza giuria) ha stabilito la pena di morte per la sola Teresa, in quanto considerata mandante e “mente decisionale” del delitto.

    Forse era così, e Teresa si rendeva conto di cosa stava facendo. Una qualche condanna era inevitabile. Ma la punizione, stavolta, ha fatto la differenza tra la vita (seppur dietro le sbarre) e la morte.

    E dunque per un punto di Q.I. Teresa non è stata considerata graziabile. Per un miserabile punto, Teresa non è più viva ma è morta. Uccisa: anche se in punta di diritto, con una doppia valutazione psicodiagnostica cognitiva e da uno stato assolutamente democratico che permette la pena di morte.

     

    No alla pena di morte.

    Questi i fatti. E queste invece le mie opinioni, con almeno due angolature da cui osservare questa storia e rifletterci sopra.

    Innanzitutto da psicologo ritengo che sempre (ma soprattutto quando gli effetti di un nostro atto tecnico-professionale hanno anche una minima ricaduta sulla vita della persona) sia assolutamente necessario porsi una domanda fondamentale: quale grado di precisione ed accuratezza posso io attribuire alle mie conclusioni ? Ma, ancor più: che valore ne daranno gli altri, soprattutto quelli che possono e devono decidere cose di grande rilevanza? Da un parte la psicodiagnostica, sia di personalità che cognitiva, non è mai “tranchant”. Se praticata in modo corretto, non dice mai “è così, senza se e senza ma, senza margini di dubbio, in modo assoluto.”

    Perché l’essere umano, in tutte le sue declinazioni applicative (intellettive ed affettive e relazionali) è una qualcosa di troppo complesso per essere ridotto ad una formula algebrica, per essere ristretto nel codice binario si/no.

    Ormai da decenni in psicologia cognitiva non si parla più di intelligenza al singolare ma di intelligenze al plurale, per significare che l’efficienza intellettiva connessa con la capacità di ragionamento logico-deduttivo (la dimensione maggiormente esplorata nei test intellettivi generali) è solo un aspetto del funzionamento mentale ma non l’unico (si pensi alla cosiddetta intelligenza emotiva, la capacità di capire ed intuire gli stati mentali ed emotivi altrui). Il mero dato numerico del QI ottenuto da un test mi può spiegare l’intelligenza di una persona grosso modo come un giro turistico in pullman di tre ore a Parigi mi può far capire cosa sia la capitale della Francia. Quindi, come qualsiasi scienziato od esperto, uno psicologo ingaggiato per misurazioni di questo tipo con ricadute di tale portata, deve – per amore non solo dell’etica ma anche della verità scientifica – dire che un semplice numero come il QI descrive sì e no il 30% della effettiva capacità cognitiva. Se non lo fa si comporta come il pseudo-avvocato d’ufficio dei processi – farsa delle dittature, quando si limita a dire “mi rimetto alla clemenza della corte”.

    Aggiungo che nella WAIS ci sono tre subtests (Vocabolario, Analogie e soprattutto Comprensione) i cui punteggi vengono attribuiti tramite una valutazione qualitativa della risposta. Certo, il manuale fornisce indicazioni di massima ed esempi. Ma le persone esaminate non di rado danno delle risposte diverse da qualsiasi esempio o tipologia prevista .E’ quindi possibile che un esaminatore più severo e ristretto attribuisca un punteggio più basso di quello che darebbero altri colleghi. E ciò può anche portare ad un calo di 3 – 4 punti sul QI totale.

    C’è infine un altro aspetto tecnico specifico. Come sostiene un recentissimo testo di Neuropsicologia forense, non esistono tests cognitivi costruiti in modo tale che rendano totalmente impossibile una voluta falsificazione peggiorativa della performance.

    Questo non per incapacità degli esperti, ma per le difficoltà intrinseche dell’essere umano, nel quale la mente (funzione applicativa) non coincide col cervello (struttura anatomica).

    In altri termini, non posso far finta di avere nel mio cervello una area ipodensa od una lesione: al referto TAC o c’è o non c’è. Ad un test intellettivo posso fingere e dare risposte volutamente da stupido, se questo mi conviene. E non ci vuole molta intelligenza a capire che non è bello farsi giustiziare dal boia. Il fatto che Teresa Lewis, per ben due volte e sapendo a cosa andava incontro, abbia dato risposte sufficientemente adeguate (tanto da farsi considerare non ritardata) a me fa pensare che non abbia minimamente cercato di falsificare. E quindi che davvero avesse significative limitazioni cognitive. Un bel paradosso. Da semplice essere umano, invece (al di là del mio lavoro, intendo) non posso che pensare a quanto la vita sia imprevedibile. Al fatto che, certo, la montagna può partorire un topolino. Ma anche che un topolino (per quanto incredibile sia) a volte può far crollare una montagna intera. Un punto, un solo misero punto stavolta ha fatto una differenza totale, tra vita e morte. Ma sarebbe ingiusto e limitativo dare tutta la colpa al punto in più, al test WAIS, agli psicologi che hanno somministrato i test a Teresa.

    A monte c’è l’insensatezza della pena di morte, contro la quale anch’io non posso che aggiungere la mia voce a chi dice “Nessuno tocchi Caino” (per quanto sappia che non è affatto uno slogan amato dalla massa e soprattutto da chi manipola la pancia della massa). Ma più a monte della legge del taglione, a mio parere, c’è qualcosa di ancora più patologico, di ancora maggiormente malato e distorto: il desiderio di onni-potenza. Che genera a sua volta questo assurdo desiderio di onni-giustizia. E’ quest’ultimo che cerca di dotarsi, oltre che di complessi cavilli giuridici, anche di giustificativi “tecnici”. Ma sopratutto soddisfa i più bassi bisogni di una “pancia” emozionale allevata ed allenata a identificare il male in chi è altro-da-noi e proiettivamente messo fuori di noi.

    Giustiziare a morte un essere umano è il tentativo (che mai riuscirà del tutto) di uccidere la nostra immaginaria potenziale parte assassina.

    Dr. Fabrizio Rizzi

     

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