Psicoterapie di gruppo. I gruppi Balint
Sull’esperienza di Gruppi Balint extra istituzionali a Crema
Sentirsi male sembra voler dire che il dolore impedisce l’ascolto di se stessi. La malattia conduce Il suo corpo lontano, troppo distante per essere udito (V. Magrelli, Nature e venature).
“Il fatto che la medicina odierna non possegga una propria dottrina sull’uomo malato è sorprendente ma innegabile. Essa evidenzia manifestazioni dell’essere malati, differenze tra cause, conseguenze, rimedi delle malattie, ma non individua l’uomo malato. La sua coscienza scientifica non le permette di parlare di un mistero così enorme, e così voler dire e insegnare qualcosa di scientifico dell’uomo malato sarebbe al di sotto della dignità o al di sopra dell’umiltà di questa coscienza. Certamente, il medico al letto del paziente parla con lui e di lui. Ma poi passa dalla sfera della scienza a quella della prassi (salendo o scendendo?), e lì di nuovo è tutto completamente diverso… proprio questo passaggio è interessante e anche di più: per il discepolo dell’arte, per il medico, è il luogo delle tensioni, degli stati d’emergenza, dei problemi di formazione, è l’origine di una catena specifica di movimenti di vita e di pensiero”. (Vicktor von Weizsäcker, La filosofia della Medicina, 1926)
Introduzione
Nella mia pratica quotidiana mi sono accorto di quanto questo scritto di von Weizsäcker, medico-psicosomatico e filosofo che si proponeva di rimettere in sesto la scienza, affermando che “per comprendere il vivente bisogna prendere parte alla vita”, a distanza di quasi ottant’anni sia ancora di grande attualità. In qualità di consulente psichiatra e psicoterapeuta nei diversi reparti dell’ospedale, in pronto soccorso e durante i frequenti contatti con i medici di base per la gestione dei pazienti sul territorio, ho avuto occasione di verificare quanto sia imprescindibile recuperare sempre il paziente come “persona” e il medico come “medicina”, cioè di come il modo di elaborare e sentire la relazione col malato influisca sul comportamento professionale, sulle decisioni diagnostico-terapeutiche e sulle risposte del paziente e del suo ambiente.
Michael Balint (medico e psicoanalista nato a Budapest nel 1896 e morto a Londra nel 1970) già alla fine degli anni ’40 a Londra istituì, insieme alla moglie Enid, seminari di ricerca e di addestramento, i cosiddetti gruppi Balint, per sensibilizzare i colleghi alle componenti interpersonali della terapia.
In essi psicoanalisti e medici partecipano a un lavoro comune, che non è terapia di gruppo, bensì un operare, avendo il paziente come punto di riferimento, sul contro-transfert, cioè sul “modo in cui il medico utilizza la sua personalità, le sue convinzioni scientifiche, i suoi modi di reazione automatici”, al fine di ottenere “una modificazione notevole, seppur parziale”, della sua personalità. Borgogno (1979) afferma che essi offrono
“uno spazio di ripensamento e di riflessione sul proprio lavoro e, in molti casi, una concreta occasione di contenimento emozionale e di maggiore integrazione della propria esperienza”.
I gruppi Balint originariamente erano costituiti da 8/10 medici generici e uno o due psichiatri-psicoanalisti che si riunivano una volta alla settimana per un periodo di due-tre anni. La discussione verteva quasi invariabilmente su osservazioni recenti di malati, riferite dal medico curante stesso. Balint riteneva fondamentale che si creasse un’atmosfera di libero scambio, in cui ogni partecipante potesse presentare i propri problemi con la speranza di riuscire a chiarirli attraverso l’esperienza degli altri.
I gruppi Balint sono per tradizione orientati verso il paziente, ma recentemente sono più centrati sul medico, con maggiore enfasi sul contesto nel quale i medici presentano e raccontano le loro “storie”. Grazie agli apporti e ai cambiamenti delle diverse tecniche di gruppo, siano esse psicoanalitiche o meno, attualmente le “funzioni terapeutiche del gruppo” sono molto più evidenti (Tizon Garcia, 1997).
I gruppi Balint sono molto diffusi sia in Europa che in America; esistono una federazione internazionale e diverse federazioni nazionali. In alcuni Paesi (per prima al mondo la Croazia) sono stati introdotti come parte ufficiale dell’educazione dei medici di famiglia (Kulenovic et al., 2000). Tali gruppi si sono rivelati utili per tutti gli specialisti (internisti, gastroenterologi, ortopedici, fisiatri etc.) e in generale per “aiutare chi aiuta”, cioè per tutti gli operatori sanitari e sociali. Varie ricerche hanno dimostrato che i gruppi Balint contribuiscono a prevenire i disturbi legati allo stress lavorativo (burn out). Questo tipo di gruppo è stato applicato con successo anche agli studenti di medicina e agli insegnanti.
La costituzione di un gruppo Balint a Crema
“Non chiedere la strada a chi già la conosce, ma a chi come te la cerca”(E. Jabès, Il libro dell’ospitalità)
“Viandante la via si fa con l’andare”, diceva Antonio Machado. Se è vero che per riuscire a lavorare occorre avere almeno un paziente ma anche un collega in grado di ascoltarci, “strada facendo”, soprattutto all’interno del percorso di lavoro istituzionale, mi sono accorto di quanto spesso manchi questa seconda opportunità. L’idea di costituire un gruppo Balint è nata quindi da una reciproca esigenza d’incontro con medici specialisti e medici di base, conseguente non solo alla difficoltà di comunicazione sulla gestione dei casi, ma anche al desiderio di non essere più soli con i propri pazienti.
Più volte, durante la richiesta di una consulenza “senza qualità” (Petrella) in veste di psichiatra, ho avvertito la necessità di decodificare la domanda del collega richiedente. Mi sono così accorto che il consulente presta maggior ascolto al medico consultante che non al paziente e che il suo scopo primario è “migliorare la capacità, la conoscenza e l’obiettività del consultante e non quella di trattare il singolo cliente o paziente” (U’Ren).
La mia formazione psicoanalitica e gruppoanalitica mi ha portato a pensare di inscrivere in una cornice più ampia lo spazio d’incontro con i colleghi, quasi sempre limitato a una singola consulenza. Più volte ho ripensato al periodo di formazione durante la specializzazione in psichiatria e a quanto mi fosse utile proprio quel gruppo di confronto settimanale con i colleghi, sotto la supervisione di una ricercatrice dell’università.
La disponibilità, per non dire l’entusiasmo, con cui è stata accolta la mia proposta d’avvio del gruppo Balint si è inizialmente scontrata con problemi organizzativi, di politica aziendale, mascherati dalla cronica mancanza di tempo, schiacciati da concetti come efficacia, efficienza e qualità. Di fatto all’interno dell’Istituzione si parla molto di formazione permanente; spesso però si tratta solo di acquisire tecniche e nozioni sempre più specialistiche e parcellari che, se da un lato accrescono l’identità di tecnico, sono dall’altro lato di scarso aiuto nella gestione delle emozioni sempre in gioco nell’incontro tra persone.
Insieme a una collega psicologa-psicoterapeuta, operante in una provincia limitrofa (cui si è aggiunta in seguito una psicologa tirocinante in qualità di osservatrice partecipe e recorder), ho così dato inizio, nel gennaio 2001, a incontri extra istituzionali con medici di base e ospedalieri, dove poter sperimentare un tipo di contatto in cui non esiste più chi insegna e chi impara, bensì chi vive insieme agli altri gli aspetti psicologici a differenti livelli di penetrazione.
L’ambizioso scopo è stato quello di riunirsi per “pensare in comune”, consapevoli che “il gruppo, quando funziona adeguatamente, amplia la capacità di pensare dei singoli membri” (Tizon Gancia, 1997).
Il gruppo si riunisce una sera al mese, al di fuori dell’orario lavorativo, per circa due ore. La partecipazione è aperta, volontaria e gratuita. Non c’è stata una preselezione dei partecipanti, così come facevano i coniugi Balint per i loro gruppi, ma è stata offerta ai colleghi, in vario modo contattati, la possibilità di intervenire liberamente.
Non vengono affrontate situazioni di casi clinici seguiti contemporaneamente dai conduttori del gruppo e dai medici presenti.
Alcuni esempi tratti dagli incontri tenuti a Crema nel 2001 nei gruppi Balint
“La verità non è affatto nella domanda. Meno ancora nella risposta. Essa è nella provocazione dell’una e nello sconvolgimento dell’altra” (E. Jabès, Il percorso)
Non è certo possibile farsi un’idea precisa di che cosa sia un gruppo Balint e comprendere a pieno il suo significato senza averlo realmente sperimentato, proprio perché, come diceva il suo fondatore, “deve essere al di là di ogni spiegazione a parole, un’esperienza vissuta, dinamica e strettamente personale”.
Dal gennaio al dicembre 2001 ci siamo incontrati 11 volte e la partecipazione media è stata di 6 medici (con un minimo di 4 e un massimo di 7), oltre ai due conduttori e alla psicologa recorder. Oltre a 6 medici di base, dei quali almeno 2 hanno partecipato con assiduità, sono stati presenti 2 gastroenterologi, un internista oncologo, un pneumologo, un neurologo, un dentista e un fisiatra. Negli esempi che seguono ho dovuto apportare alcune piccole modifiche per rispettare la privacy dei colleghi intervenuti e dei loro pazienti.
I Gruppi Balint. I° esempio
Si tratta del primo incontro, che ha visto la partecipazione di 5 medici (due medici di base: B1 e B2; l’oncologo: A; una gastroenterologa: C1; la dentista: D), oltre ai due conduttori.
I presenti vengono brevemente informati su come dovrebbe funzionare il gruppo. A ognuno viene data una copia delle linee guida essenziali sui gruppi Balint. Dopo una breve presentazione dei partecipanti, lo psichiatra conduttore ricorda che Balint spesso soleva sollecitare i colleghi a parlare dell’ultimo caso visto nella giornata.
A inizia a raccontare della situazione che l’ha coinvolto particolarmente proprio poche ore prima di venire al gruppo. Caso: il paziente è un uomo di 62 anni, ricoverato in neurologia, e per il quale viene richiesta la consulenza di un oncologo (A). Il medico che fa la consulenza propone una chemioterapia, ma il paziente non era a conoscenza della sua malattia tumorale. A rimane molto colpito dalla situazione imbarazzante nella quale si è trovato. Emerge che A era stanco e questo gli avrebbe impedito un’attenta valutazione della possibilità che il paziente non fosse informato sul suo stato di salute. Il paziente verrà poi trasferito proprio nel reparto del consulente oncologo, che si impegnerà a occuparsi personalmente del caso.
Interviene B1, la quale racconta la propria esperienza di paziente oncologica, segnalando la scarsa sensibilità del collega che a Bergamo, nel sottoporla a una scintigrafia total body, le ha detto: “Vediamo innanzitutto se ci sono metastasi vertebrali e cerebrali” (la collega ha subìto l’asportazione della tiroide per un tumore). Seguono alcuni commenti da parte dei partecipanti, che mostrano la loro disapprovazione per una simile condotta.
Il secondo caso viene portato da B2: “l’ennesima signora che nello stesso giorno mi chiedeva alcuni giorni di malattia e lamentava dolori diffusi al braccio, sembrandomi di scarso rilievo clinico, veniva da me congedata con terapia antalgica e 3 giorni di riposo. Tornata dopo una settimana, lamentando ancora un ulteriore peggioramento del dolore e presentando una documentazione di precedenti consulenze ortopediche e radiografiche che non attestavano nulla di patologico, acconsentivo a farle fare altri accertamenti, che comunque a mio avviso non avrebbero segnalato alcunché di nuovo. Pochi giorni dopo è ritornata in ambulatorio con una radiografia che attestava una grave calcificazione dei tendini di tutto il braccio e l’avambraccio. Inviata allo specialista, questi mi comunicava l’estrema gravità del quadro clinico. Da allora il rapporto con la paziente, che non ha ancora recuperato la piena funzionalità del braccio, è paradossalmente migliorato”.
Il gruppo, stimolato dalle osservazioni dei due conduttori, rileva l’importanza in entrambi i casi del bisogno di riparazione della colpa da parte dei curanti.
I Gruppi Balint. II° esempio
E’ il terzo incontro, al quale hanno partecipato 4 medici (B2, D, C1 e C2). Il primo caso viene descritto da un gastroenterologo (C2) che partecipa per la prima volta al gruppo, invitato dalla collega di reparto (C1), che era già venuta ai precedenti incontri. Parla di una signora anziana che presenta una serie di lamentele somatiche con scarsa obiettività, ma per la quale a nulla valgono le sue rassicurazioni. Anche l’invio allo psichiatra non viene raccolto dalla paziente, che continua ripetutamente a chiedergli esami e interventi. C2 ammette una sua idiosincrasia per pazienti di questo tipo che, peraltro, gli capitano spesso. In seguito ai contributi del gruppo, il collega riconosce di trovarsi in una situazione analoga con la propria madre, che presenta disturbi simili. Segue l’osservazione comune dei partecipanti sul fatto che, loro malgrado, si trovano a dover fare da medici a parenti e amici, che si rivelano spesso pessimi pazienti. Nasce la riflessione sulla necessità di mantenere una giusta distanza dai propri pazienti e viceversa: se i parenti sono pessimi pazienti, così anche i medici sono pessimi medici con i loro congiunti.
Il secondo caso viene riferito da C1: si tratta di una paziente conosciuta anni fa in occasione di una gastroscopia che non rilevò nulla di patologico. Malgrado C1 abbia cercato di convincere la signora a rivolgersi a un altro specialista per risolvere i suoi disturbi “psicosomatici”, ella ha continuato ad andare regolarmente da lei per dei colloqui “psicoterapeutici”. Dalla successiva discussione di gruppo emerge come anche in questa situazione sembra che siano i pazienti a scegliere il proprio medico e la propria cura.
I Gruppi Balint. III° esempio
Si tratta del quinto incontro, al quale hanno partecipato B2, B3, A, C1,C2.
L’assenza di un collega ammalato dà spunto ai partecipanti per parlare delle reazioni dei pazienti di fronte a un medico malato: “Ah, ma allora anche i dottori si ammalano!”.
B2: ”I pazienti pensano che i medici siano immuni dalle malattie. A volte la gente si rivolge al medico di base anche se questi è a casa ammalato, perché non si fidano di nessun altro medico”.
Secondo alcuni colleghi, i pazienti approfittano della disponibilità che il medico offre loro, convinti di poterlo contattare in qualunque momento. Si parla dell’urgenza del ricorso al medico, urgenza che in caso di malattia diventa anche urgenza “psicologica”, bisogno immediato di aiuto. Questa osservazione conduce il gruppo a interrogarsi sulla difficoltà di alcuni medici a dire di no a un paziente.
Sorgono così le seguenti considerazioni: la relazione medico-paziente è unica e privilegiata; di fronte a un nuovo medico il malato si sente a disagio; la professione del medico è considerata una missione, per cui ci si attende da lui comprensione, disponibilità e attenzione al paziente come persona; l’immagine popolare del medico è caratterizzata dall’idea della sua onnipotenza; questa immagine mitica può giocare un ruolo importante nella scelta professionale; in caso di acuzie è importante fornire una continuità della cura e della gestione del paziente da parte dello stesso medico, perché questo rassicura il paziente.
I Gruppi Balint. IV° esempio
E’ l’ultimo incontro (l’ottavo) prima dell’interruzione estiva. I partecipanti sono B2, B3, A, D.
D espone al gruppo una difficoltà che ha incontrato nel momento in cui, durante una visita odontoiatrica, si è accorta che un suo paziente necessitava di svolgere indagini più approfondite per sospetta patologia neoplastica. Il gruppo pensa che una situazione di questo tipo genera spesso ansia nel medico che deve comunicare al paziente una possibile malattia grave. D rivela che in quel caso si è trovata a pensare a come il paziente avrebbe reagito alla sua comunicazione. Il gruppo riconosce in ciò una forte identificazione con il malato. Lo psichiatra G sottolinea il fatto che D, in quanto dentista, è forse meno preparata a dare notizie come quella di accertamento per una malattia tumorale, potenzialmente mortale.
La psicologa conduttrice GG interviene dicendo che dal modo in cui il medico parla e dall’atteggiamento con il quale si pone al paziente si capisce se vi è disponibilità al dialogo. Questo fa sì che i pazienti finiscano per rivolgere le loro domande sempre agli stessi dottori, anche quando è un altro collega che si sta occupando di loro. A: “Sarebbe necessario però che questa attitudine ci venisse insegnata all’università, altrimenti tutto è lasciato alla libera scelta“. Il gruppo si confronta su questo problema e conviene che la capacità di comunicare non può essere insegnata..
Non esisterebbe una tecnica per le “cattive comunicazioni” perché, a volte, la difficoltà è del medico in quanto persona, che può essere in ansia lui stesso per la notizia che deve dare. D parla di come anche la scelta di fare il medico implichi l’idea di poter controllare la sofferenza, il dolore, la morte nostra e dei nostri cari. G mette l’accento sul fatto che quando si dà una “cattiva notizia” si aggiunge sempre qualcosa che riguarda se stessi, qualche proprio “fantasma” rispetto alla morte e alla malattia.
A racconta che sulle cartelle cliniche di un suo collega non compare quasi mai la parola “cancro”, ma piuttosto “k”, “neoplasia”,”tumore”. B2 rammenta che anche i neurologi per fare la diagnosi di cancro utilizzano talvolta il termine “discariocinesi”.
G ricorda al riguardo una frase di Laing che diceva che la cosa più difficile è stare di fronte al paziente senza fare niente, cioè stare lì con lui.
Alla fine dell’incontro i medici presenti esprimono la loro opinione sull’esperienza fin qui fatta nel gruppo Balint.
D: “Per me è stata un’esperienza positiva che mi ha portato a riflettere di più, anche mentre lavoro, sul rapporto con i pazienti e con me stessa, le mie ansie e le mie emozioni”.
A: “Quello che ho trovato più utile è stato il feedback degli altri e conoscere e confrontarmi con i loro diversi punti di vista”.
B2: “E’ stato utile lo scambio di esperienza con medici di altre specializzazioni”.
B3: “Sapere di potermi confrontare con colleghi mi aiuta a sentirmi meno solo con i miei pazienti”.
Per chi ha frequentato il gruppo è stato utile sentire e constatare come gli altri percepiscono la situazione in oggetto e pensare come si comporterebbero loro. Il gruppo è stato vissuto come uno strumento di analisi e di crescita. A aggiunge che è stato contento di aver partecipato, ma che non se la sentirebbe di dare di più, nel senso che non avrebbe più tempo per leggere o studiare.
Conclusioni
Trattandosi di un’esperienza tutt’ora in sviluppo, è possibile fare solo alcune osservazioni preliminari.
Innanzitutto, la partecipazione aperta, volontaria, discontinua, con frequenti entrate e uscite di medici di diversa provenienza, gli incontri con intervalli piuttosto lunghi (circa un mese), se da un lato rappresentano al momento l’unica modalità di lavoro comune e di sopravvivenza di un gruppo come questo, dall’altro non consentono di fare riflessioni sulle dinamiche interne allo stesso, che richiederebbero un gruppo chiuso, con un setting più definito. Non è stato sempre possibile seguire l’evoluzione nel tempo delle diverse situazioni presentate durante gli incontri, proprio per la discontinuità dei partecipanti. Per molti, anche per i meno assidui, è stato tuttavia possibile vivere un’esperienza nuova che andava incontro a un’inespressa, ma quanto mai forte esigenza di confronto e dialogo. Per alcuni, addirittura, si è trattato di una vera e propria scoperta di una modalità di lavoro del tutto ignorata durante gli anni di formazione universitaria e di pratica professionale e che ha consentito di osservare con nuovi occhi l’esperienza di ogni giorno e di scoprire che vi sono processi che nel rapporto medico-paziente (gli indesiderabili e indesiderati effetti secondari del “farmaco medico”) provocano ai medici un inutile disagio e ai loro pazienti irritazioni e sofferenza altrettanto inutili.
Durante l’esperienza dei diversi incontri c’è stato spesso uno spostamento dell’attenzione dal rapporto tra il singolo medico con il singolo paziente alle difficoltà incontrate dal medico all’interno del suo ambiente di lavoro, quindi nei confronti dei colleghi o di altri operatori. Questo può essere in parte legato al fatto che nel gruppo partecipano non solo medici di base ma anche ospedalieri. E’ quindi più sentito il problema del malessere istituzionale o della difficoltà di lavorare all’interno di una équipe. Anche alcune situazioni riportate da medici di base comunque hanno mostrato la necessità di allargare il problema a un contesto più ampio che non sia quello tra paziente e medico, ad esempio considerando anche il rapporto con le famiglie dei pazienti e la gestione di situazioni che richiedono anche l’intervento di terzi.
E’ emersa chiaramente la difficoltà di aggiungere il tempo del Balint a un lavoro già impegnativo e faticoso, ma, come non smetteva di sottolineare lo stesso Balint, il gruppo dovrebbe proprio consentire a chi vi partecipa di “risparmiare tempo nel tempo”.
Per raggiungere questo risultato è però necessaria una frequenza continua e duratura.
Rimane l’interrogativo se sia possibile o meno sperimentare all’interno dell’Istituzione una formazione di questo tipo, che potrebbe consentire forse una partecipazione più ampia e assidua, in uno spazio condiviso dove, per dirla con Gargani, non ci si trovi di fronte “alla tragedia della spiegazione conclusiva”.
Dott. Giancarlo Stòccoro